I Franchi

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Versione del 15:56, 16 nov 2009, autore: Franco cambisi (discussione | contributi)
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Sul finire della dominazione longobarda, nel 771, il vescovo di Grado così prorompeva: “Che cosa non soffrono i poveri per i quotidiani rastrellamenti di danaro (collectae) a favore dei dominatori longobardi? Anche le chiese subiscono abitualmente e continuamente imposizioni sul raccolto e sul bestiame”. Il buon vescovo, che si dimostra rigoroso e parla di “poveri” e non della popolazione tutta, con il termine colletta non alludeva di certo ad un sistema tributario più o meno preciso, ma ad un complesso di esazioni senza disciplina, servizi personali, dazi e forse anche imposte dirette, cui ricorrevano gli invasori. V’era in quel tempo coscienza di una certa diversità dei Franchi da altre popolazioni considerate barbariche: la loro adesione alla chiesa di Roma, la pratica di un diritto fortemente romanizzato e la gloria recente di salvatori della “Romania” dalla ferocia del giovane Islam (Poitiers - 732) li rendeva privilegiati agli occhi interessati del papa. Nel 753 papa Stefano II° si appella al re dei Franchi, Pipino il Breve, per contrastare lo strapotere dei Longobardi guidati da Astolfo. Il secondo evidente obiettivo del pontefice è quello di contrastare la chiesa di Bisanzio espellendola dall’Italia. I Franchi impegnano i Longobardi in una guerra ventennale conclusa vittoriosamente da Carlomagno nel 774, anno che segna il destino di re Desiderio e del suo regno; l’assedio di Pavia termina in un massacro; Adelchi fuggirà a Bisanzio. Riuscendo laddove Bisanzio aveva mancato, Carlomagno si guadagna una popolarità immensa presso i cristiani occidentali e per questa via tenterà la conquista di tutta l’Italia, in accordo con il Papa che ricerca l’affermazione della chiesa di Roma su quella di Costantinopoli. Il contrasto fra Roma e Costantinopoli si trasforma in aperta rottura: a tre secoli dalla fine dell’impero romano crolla anche la prospettiva di una chiesa cristiana universale, un fatto sancito da papa Leone III° che nell’800 impone la corona imperiale a Carlomagno. Da quel momento nel Mediterraneo si contrappongono non solo due chiese ma anche due imperi cristiani. A quello di Carlomagno peraltro mancava il riconoscimento di Costantinopoli e le sorti del piccolo ducato delle Venezie si giocano proprio su tale questione. Ma qui, per comprendere un po’ meglio le tumultuose vicende dei successivi 40 anni, occorre fare un passo indietro e recuperare qualche informazione su Aquileia. Aquileia, fiorente porto romano, era la città più grande di tutto il nord-est e la quarta in Italia dopo Roma, Milano e Capua. Fondata dai Romani nel 181 a.C. divenne capitale della X Regio “Venetia et Histria”; nei primi secoli dell’era cristiana contava circa 200.000 abitanti; e questo fu il suo apice. In seguito la sua supremazia subì una serie di colpi: Alarico ed i suoi Visigotiti assediarono in due occasioni la città, nel 401-402 e nel 408 ed il vescovo Agostino, attorno all’anno 407, fece costruire un castrum a Grado per garantire un riparo al popolo aquileiese; poi, in occasione del passaggio unno nel 453, la temporanea fuga a Grado spostò ulteriormente il baricentro degli interessi verso l’isola, che, fra l’altro, godeva di un accesso al mare più funzionale di Aquileia, il cui vecchio porto andava progressivamente insabbiandosi. Grado, insediamento che nacque come gradus, cioè come porto, scalo marittimo al servizio di Aquileia. Poi ci fu il passaggio dell’esercito di Teoderico e, nel 489, la battaglia con Odoacre. Questo processo di “distinzione” subì un’accelerazione nel secolo successivo con l’arrivo dei Longobardi. Nel 568 Paolo, vescovo di Aquileia, trasferisce a Grado la sede episcopale ed il tesoro della Chiesa, sotto la protezione di Bisanzio che lo proclama Patriarca e quando, fra la prima e la seconda fase di penetrazione longobarda, una parte almeno degli abitanti rientrano in Aquileia, le contraddizioni fra l’antica capitale e Grado si esplicitano in modo paradigmatico e si fanno due Patriarchi. Passerà alla storia come "lo scisma dei Tre Capitoli" Le ragioni vanno ricercate in una mutata situazione economica: l’entroterra friulano, quindi anche Aquileia, stanno sotto la dominazione longobarda mentre le lagune della “Venetia marittima” restano sotto l’influenza bizantina. Comunque dovrà attendersi l’anno 733 perché sia ufficialmente sancita la separazione tra il Patriarcato di Aquileia e quello di Grado, che comprendeva anche le diocesi del ducato di Venezia. Dal 774, con la sconfitta dei Longobardi, i Franchi occuparono anche il Ducato del Friuli ed Aquileia ritorna a svolgere un ruolo centrale nell’organizzazione dell’impero carolingio, in particolare per merito di un suo patriarca, Paolino (787 – 802). Di origine e formazione cividalese, divenne familiare di Carlo Magno che per un periodo lo volle presso di sé ad Aquisgrana per associarlo alla sua Scuola Palatina presso la quale Paolino ha modo di arricchire la sua formazione e di conoscere, fra gli altri, Alcuino di York, Rabano Mauro e Paolo Diacono . Tornato ad Aquileia Paolino riforma, svecchiandola, la liturgia della sua chiesa, combatte con vigore l’eresia adozionista, diviene strumento politico di Carlo Magno nella sua opere di organizzazione dello Stato e dei suoi confini. In questo quadro la sola lista litoranea, da Grado a Cavarzere, rimaneva fuori dal controllo carolingio. La pressione dei Franchi e del papa sulle Venezie raggiunge il livello di incandescenza nel 787, quando i mercanti veneziani vengono espulsi da Ravenna e dalla Pentapoli, previa confisca dei loro possedimenti. L’evento, che si inserisce nel contrasto per il riconoscimento del titolo imperiale fra Carlomagno e l’imperatore di Costantinopoli, evidenzia però anche una spaccatura all’interno del ducato veneziano dove erano andati formandosi due partiti: uno filo-bizantino, lealista, erede più diretto della tradizione eracleese; l’altro tendenzialmente filo-franco, insofferente dei legami con Costantinopoli, legato alle vecchie posizioni metamaucensi. Il conflitto coinvolge naturalmente anche la Chiesa. Le prime tensioni si scaricano sul Patriarcato di Grado: le probabili perplessità provocate dall’istituzione, per volere ducale, della diocesi di Olivolo, si tramutano in irritazione nel 795, quando al primo vescovo di Olivolo succede un greco, Cristoforo, legato a Bisanzio e che il patriarca gradense Giovanni, informatore di papa Adriano I°, doveva vedere come avversario dei suoi legami con Roma. La rottura si esplicita nell’802, quando il doge Giovanni, succeduto al padre Maurizio, invia contro Grado una spedizione punitiva, guidata dal figlio e correggente Maurizio, col compito di uccidere il patriarca. A Venezia gli oppositori si organizzano sotto la guida di Obelerio di Malamocco, che in una prima fase è costretto ad esulare. Carlo Magno fa sentire la sua influenza in questa vicenda, i sostenitori di Obelerio a Venezia preparano un pronunciamento contro il quale il doge Giovanni non sa opporsi ed è perciò deposto: Obelerio può rientrare da vincitore a Venezia, farsi eleggere doge, associando al dogado il fratello Beato. Nell’805 il doge Obelerio e Beato, si recano ad Aquisgrana alla corte di Carlomagno, sollecitando il suo riconoscimento ed anche un’investitura. La reazione bizantina non si fa attendere: l’imperatore Niceforo I° invia la flotta guidata dal patrizio Niceta a riportare l’ordine preesistente. La superiorità bizantina in mare rende insostenibile l’ipotesi di una resistenza. La Dalmazia viene rapidamente recuperata, Obelerio e Beato tornano nell’alveo della fedeltà a Costantinopoli; tutto sommato la restaurazione non provoca per il momento grandi sconvolgimenti. Forse influisce anche la volontà di Niceta di giungere con i Franchi ad accordi politico-diplomatici, per il buon esito dei quali era necessario non esasperare i contrasti. Carlo Magno, nella spartizione del suo impero tra i figli, aveva affidato la cura dell’Italia a Pipino e nell’807 Niceta con lui firma a Ravenna un patto di pace e rientra poi a Costantinopoli, convinto di lasciare una situazione tranquilla. Ma i veneziani non trovano soddisfazione in quelle condizioni pattuite e ben presto riesplodono aspri contrasti nei confronti di re Pipino. I francesi denunciano irritati “la perfidia dei duchi venetici e le frodi” minacciando un intervento. Il gesto provoca l’invio di una flotta bizantina al comando di Paolo, duca di Cefalonia. Pipino muove contro il ducato sia per mare che per terra, raggiungendo nell’811, a quanto pare, la stessa capitale Malamocco. Ma Carlomagno è più interessato a far riconoscere il proprio titolo dall’Imperatore d’Oriente che non al mantenimento di una conquista faticosa da difendere. Ad Aquisgrana c’è il legato dell’Imperatore d’oriente, Ebersappio (o Arsapio) al quale Carlo Magno consegna la lettera in cui si dichiara pronto a restituire la Venezia, l’Istria, la Liburnia e la Dalmazia in cambio del riconoscimento della sua dignità imperiale. Il duca Obelerio è deposto e viene rispedito a Costantinopoli.

Nel viaggio di ritorno verso Bisanzio Ebersappio fa tappa a Venezia; in sua presenza viene eletto doge di Venezia un nobile eracliano, Agnello Parteciaco. Nello stesso tempo trasferisce la sede del governo nell’isola di Rialto, assai meglio difendibile di Malamocco, dove già risiedeva la famiglia particiaca. Il 13 gennaio 812 l’imperatore Michele I° riconosce il titolo imperiale di Carlomagno. Il negoziato conclude un periodo davvero cruciale durante il quale la prospettiva di un inglobamento di Venezia nell’area occidentale-carolingia era stata molto vicina a realizzarsi. Tuttavia il colpo era stato parato con il ripristino dell’alta sovranità bizantina, in termini che, ancora una volta, non soffocavano l’autonomo sviluppo delle forze locali. (Si veda: G.Ortalli - Venezia dalle origini a Pietro II° Orseolo – Storia d’Italia UTET - pag.381) Forse possiamo considerare Agnello Parteciaco (o Partecipazio) il primo vero doge di Venezia. Apparteneva ad una ricchissima e potente famiglia di Eraclea ed era un grande proprietario terriero. Il suo governo esprime il primo esempio di figura dogale con un ruolo istituzionale, anche se i problemi non mancheranno. Nel corso del suo ducato (811-827) Agnello fa costruire a Rialto il primo palazzo ducale, sede del governo e delle funzioni pubbliche, che rappresenterà un primario punto di riferimento insediativo. Dovrà poi affrontare la lite scoppiata tra i suoi figli, Giustiniano e Giovanni: Giustiniano viene assunto a coreggente e, alla morte del padre, diverrà doge (827-829); Giovanni invece è esiliato a Costantinopoli ma, dopo la prematura morte del fratello, sarà a sua volta doge (829-836). Tra l’824 e l’827 si colloca la congiura di Giovanni Tornarico, Bono Brandonisso e Giovanni Monetario, da Agnello repressa con grande durezza.