Guerra di Chioggia

La guerra di Chioggia (1379-80)

Giunta all’apogeo della sua potenza, Genova era intenzionata a mettere in ginocchio definitivamente la rivale Venezia con un attacco diretto che l’avrebbe strangolata dal mare con la flotta della Repubblica e da terra con le forze alleate del re d’Ungheria Luigi il Grande, dall’arcivescovo di Aquileia e del signore di Padova, Francesco da Carrara, che nutriva verso Venezia un odio che travalicava i limiti dell’ossessione.

Contro avversari tanto formidabili, la sopravvivenza della repubblica lagunare era in gravissimo pericolo.

Già nel biennio precedente Venezia era stata costretta sulla difensiva. Nel 1377 Andronico, figlio ribelle dell’imperatore di Costantinopoli Giovanni I, aveva noleggiato una flotta genovese per attaccare, senza successo, Tenedo, isola dell’Egeo dove la flotta achea si era nascosta per dissimulare la propria partenza prima dell’assalto finale a Troia. Contemporaneamente nel Trevigiano cominciava l’accerchiamento da terra.

L’anno successivo Genova assumeva direttamente l’iniziativa: inviava 22 galee, al comando di Luciano Doria per dare seguito al tentativo di affamare Venezia troncando la sua linea di comunicazione con le colonia, ma Doria, sorpreso dall’ammiraglio veneziano Vettor Pisani era costretto a trovare rifugio a Zara nell’inverno del 1378, dove era costretto anche a subire un blocco navale.

Nella Primavera successiva, Pisani, che aveva svernato a Pola, veniva rinforzato da 11 galee e tornava a scontrarsi con i genovesi, con esito incerto, mentre scortava un carico di grano destinato alla madrepatria.

Ritornato a Pola, veniva prima bloccato dai genovesi e quindi sconfitto rovinosamente in battaglia il 7 maggio del 1379: ritornato in patria fu accusato di incapacità e codardia, processato, condannato e incarcerato.

La morte in combattimento del comandante genovese venne rimediata con sollecitudine inviando in sua sostituzione Pietro Doria con altre 14 galee di rinforzo.

Con la sconfitta della flotta veneziana era maturato il momento per prendere energicamente l’iniziativa, e Genova e i suoi alleati lo colsero senza indugi. Dall’inizio di luglio 1379 la flotta genovese intraprese le prime minacce dirette alla città lagunare partendo da basi in Dalmazia, arrivando infine il 6 agosto ad assaltare Chioggia con l’aiuto di Padova, che agiva da terra con una sua flottiglia per l’attacco anfibio: un’armata combinata di 24.000 uomini che impiegò 10 giorni ad avere ragione dei 6.000 uomini della guarnigione veneziana, duemila dei quali morirono nei furiosi combattimenti.

Finalmente Genova disponeva di una base dalla quale chiudere un efficace blocco marittimo di Venezia: le galee dell’epoca, infatti, non avevano la capacità nautica per effettuare blocchi a lunga distanza, ma necessitavano di basi molto vicine all’obiettivo strategico. Con l’occupazione di Chioggia questa condizione era oltretutto coniugata ad un ottimale collegamento con la terraferma e l’alleato padovano.

Venezia era completamente isolata, la sua capitolazione per fame era solo questione di tempo.

Una situazione disperata che richiedeva una risposta disperata. L’intera città maturò la determinazione a resistere: l’arsenale si avviarono febbrili lavori di fabbricazione di nuovi navigli e di riparazione di quelli vecchi. Ogni strumento in grado di galleggiare fu requisito, ogni cittadino venne armato.

Vettor Pisani, detenuto nei “Pozzi” per scontare la sua condanna, venne reclamato a gran voce dalla popolazione e liberato: a lui venne affidata la difesa della città.

Le difese cittadine sia da parte di terra che di mare vennero rafforzate e corredate di artiglieria: una vera novità per l’epoca e per l’Italia che dimostra il grado di impegno della Repubblica anche sotto il profilo tecnologico.

Gli intensi e spasmodici preparativi di guerra non impedirono di giocare anche la carta diplomatica: data l’inutilità di rivolgersi a genovesi e padovani, si provò a dividere il campo avversario rivolgendosi al re di Ungheria. Le condizioni di pace poste da re Luigi, però, furono così dure e umilianti che vennero rifiutate: rimaneva solo la guerra e gli sforzi furono moltiplicati.

Da un lato la città si mobilitò per raccogliere risorse straordinarie: in prima linea il doge Andrea Contarini che impegnò le sue rendite e inviò al tesoro pubblico le sue argenterie. Dall’altro si adottarono misure politiche altrettanto straordinarie: occorreva unire in uno sforzo comune l’intera popolazione della città e il Gran Consiglio determinò il proprio allargamento ai 30 cittadini non nobili che più si fossero distinti nella difesa della Repubblica. La saldatura tra gli interessi del patriziato e quelli dei ceti popolari andava oltre le dichiarazioni di principio e diventava progetto politico.

I primi risultati di questi sforzi furono rincuoranti: alcuni successi locali dimostrarono che la città era pronta a respingere ogni attacco le fosse stato mosso.

Dopo spasmodici preparativi Venezia fu pronta al contrattacco.

Pisani, approfittando della circostanza che la flotta genovese si era chiusa nel canale di Brondolo per resistere al mare invernale, e non avrebbequindi potuto dispiegare la propria superiorità, tentò un colpo a sorpresa.

Una flotta di 34 galee con 60 barche armate e centinaia di altri battelli uscì dal porto la notte del 23 dicembre approfittando delle lunghe ore di buio, dirigendosi verso Chioggia. Giunti all’alba, Pisani fece sbarcare a Brondolo circa 5.000 uomini per occuparne la punta. Nel frattempo la flotta, dividendosi in più colonne, raggiungeva gli sbocchi al mare dei canali e li ostruiva affondandovi barconi carichi di pietre e collegandoli tra loro con palizzate.

Imprigionate le galee genovesi nei loro approdi con questo stratagemma, incominciava una lunga e serrata battaglia tra opposte trincee con alterne fortune. I veneziani assediavano Chioggia, ma nel contempo erano minacciati dalla terraferma da continui tentativi di rompere l’accerchiamento e di rifornire gli assediati. L’arrivo dall’Oriente di 8 galee al comando di Carlo Zeno rinvigorì il morale e fornì un ulteriore iniezione di fiducia.

La lotta si protrasse per ben sei mesi con una ferocia di cui è difficile trovare paragoni. I veneziani dovettero fronteggiare rivolte di mercenari non pagati, contrattacchi da terra e dal mare, sconfitte e vittorie. La loro artiglieria, tra cui la igantesca “trevisana”, tempestò i genovesi con pesanti proiettili di pietra che ne distrussero le difese, uccidendo in un crollo anche Pietro Doria.

I difensori, idotti a poco più di 4.000, cedettero per fame, costretti a mangiare cuoio bollito, il 24 giugno 1380. La guerra non era ancora finita ma Venezia ormai era salva.

Venezia non fu mai così vicina all’estinzione, tra la sua nascita avvolta dal mito nel VI secolo e la sua fine per mano di Napoleone nel 1797, come nella Guerra di Chioggia, dove la “Serenissima” mise in gioco tutte le sue risorse e diede prova di tutte le sue qualità.

Il singolo fattore più importante di successo per l’esito finale della guerra, infatti, fu proprio Venezia stessa, ovvero il carattere politico, sociale e civile che essa aveva costruito nel corso dei secoli.

Le istituzioni veneziane avevano sviluppato un alto livello di consapevolezza nell’interesse collettivo della comunità veneziana, ben rappresentato dall’organizzazione della “muda”: un convoglio organizzato dallo stato per proteggere le navi commerciali nei loro lunghi viaggi con una scorta di galee da guerra.

In virtù di questa cultura condivisa, nel momento del massimo pericolo la popolazione poteva quindi identificarsi e stringersi attorno al governo del Gran Consiglio, che non mancò come anticipato di riconoscere questo sforzo anche ai plebei aprendo loro le porte del patriziato. La mobilitazione totale delle energie nazionali verso il comune obiettivo della sopravvivenza della Repubblica riuscì così ad avere la meglio su forze tanto superiori.

 

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Testo basato sull’originale di

http://www.warfare.it/campi/chioggia.html

 

di Nicola Zotti