Marcantonio Bragadin/Il martirio

La picca penetrò attraverso l’intelaiatura della gabbia, finché la punta acuminata raggiunse il fianco scoperto del prigioniero. Quindi, mantenendo la propria espressione imperturbabile, il guardiano feroce impresse una forza maggiore sull’asta e conficcò la lama più a fondo, strappando un lancinante urlo di sofferenza al miserabile ammasso di carne, che ormai da una dozzina di giorni era contratto all’interno dello spazio angusto di quella particolare prigione esposta ai raggi violenti le implacabili del sole d’agosto.

Acqua. ..Acqua….

Il primo pensiero che sfiorò la mente di Marcantonio Bragadin, dopo quel violento risveglio da un sonno agitato che l’aveva rapito soltanto per una manciata di ore, fu quello di domandare da bere ai suoi torturatori. Per qualche istante il suo corpo straziato non venne infiammato da nessun altro desiderio. Né da quello di potersi saziare di cibo autentico, dopo aver sorbito per quasi due settimane soltanto un’immonda brodaglia. Né dalla speranza di allontanare da sé l’abisso di dolore, che anche adesso era stato appena rinfocolato da quel colpo brutale di lancia. Né tanto meno quello di riacquistare all’improvviso la libertà, che ormai gli si presentava come una chimera evanescente e irraggiungibile, il sogno impossibile di un uomo umiliato dalle circostanze, l’ultima folle aspirazione di un debole essere umano che una volta era stato dignitoso ma che ora era ridotto ad una carcassa morente.

Acqua.. .Acqua….

Immediatamente dopo lo scontro notturno nella tenda di Mustafà Lala Pascià, avvenuto il cinque di agosto, colui che era stato il comandante civile della fortezza di Famagosta sull’isola di Cipro era stato trasportato di peso all’aperto e, al lume delle torce impugnate da una squadra di guardie armate ottomane, era stato gettato in un gabbione di ferro, già approntato in precedenza di fronte all’alloggio del condottiero turco.

Là dentro, in una cubatura talmente ridotta da non consentirgli né di sdraiarsi né di levarsi in piedi, ma soltanto di rimanere rannicchiato nella posizione di un feto, con le ginocchia che quasi gli sfioravano il mento e la schiena ricurva in modo innaturale, il prigioniero era rimasto poi per tutto quel periodo, non essendogli mai stato concesso di uscirne neppure pochi istanti per sgranchirsi le membra indolenzite.

Lo strazio alle giunture e alla muscolatura contratta, l’affanno profondo alla respirazione causato dalla compressione del torace, avevano preso a tormentarlo prima ancora che spuntasse l’alba del primo giorno di quella detenzione inumana. Quindi, man mano che il tempo trascorreva lentissimo, le notti si susseguivano inesorabilmente alle giornate sempre uguali a sé stesse, il disagio si era trasformato in fitte continue, la pena in lacerazione costante, il patimento in una sofferenza al di là di ogni possibile sopportazione, se non rifugiandosi, come la mente di Bragadin alla fine era stata costretta a fare, in una sorta di catatonia da indementito, che potesse isolare la vittima dal mondo esterno e dalle torture provocate da quell’orrore senza la minima tregua.

Acqua…Acqua….

Poi però, fin dal diffondersi delle prime luci dopo la cattura, la crudeltà della posizione all’interno della gabbia quasi gli parve tormento da poco rispetto alla durezza dei colpi di sferza che iniziò ad infliggergli la fiamma viva del sole contro il corpo immobile e totalmente esposto ai suoi raggi.

Il ferro della struttura si surriscaldò nel volgere appena di un’ ora, strappando lembi di pelle e filamenti di carne viva dalle ginocchia e dalle spalle del prigioniero, ogni volta che il disgraziato era costretto ad appoggiarvisi per rilassare di poco un muscolo dolorante. Già a metà del percorso dell’astro nel cielo completamente privo di nubi, nel momento in cui i guerrieri turchi sfiniti si ritiravano all’ombra per bere e cibarsi, tutto poi si trasformò in un’esplosione di fuoco abbacinante, nel breve spiazzo nel quale era stata montata la gabbia. E fu a quel punto che per il veneziano si spalancarono le porte dell’inferno mentre era ancora vivo.

Acqua…Acqua…. Il riflesso contro la sabbia fine di Capo Greco, dove si erano accampati i mussulmani, penetrava anche oltre le palpebre che la vittima disidratata non riusciva più a serrare completamente. E le schegge di mica brillanti, che erano mescolate al terriccio in quel punto del territorio cipriota, si erano trasformate in tante esplosioni di fulgore insostenibile, che divampavano nei globi oculari e incidevano la rètina sul fondo.

Poi, annunciato dal lacerarsi della pelle che veniva spaccata in lunghe striature dai bordi irregolari, bianchi e fragili come corazze di insetti abbandonate dopo la muta, molto presto si allargò a dismisura l’abisso di follia della sete. La tortura prese avvio dallo stomaco, dalle zone più riposte del corpo, nelle quali cominciò ad avvertirsi un disagio sordo, quasi un vuoto che andava approfondendosi sempre di più, e che via via si trasformava nello spasimo di un cancro che rode e dilania perché non viene colmato ò sopito. Quindi il germe primario dell’arsura, come un serpente che si snoda pigramente e inizia a risalire curioso verso la luce, conquistò prima l’esofago, facendolo contrarre spasmodicamente, e raggiunse alla fine rapidamente la gola e la bocca, nella cui cavità alla fine si assestò, gonfiando le pareti delle guance, ispessendo la lingua, e lacerando le labbra [mo a produrvi dei tagli profondi.

L’uomo è composto essenzialmente di acqua. Questo essere umano tanto orgoglioso e capace da essere in grado di scrivere sublimi poemi, di valicare indomito la furia tempestosa dei mari, e da possedere intelligenza per calcolare con un sorriso di condiscendenza la distanza abissale tra gli astri, si riduce però ad una foglia appassita scossa dal vento, ad una mente che vaga nei territori ,ancestrali della pazzia, se solo gli è sottratta quella cosa da nulla che è l’acqua, se soltanto un suo simile, dall’acume luciferino come quello di un demone, lo priva di ciò di cui il pianeta è ricco più che per ogni altro bene, e che è così svalutato finché si presume che non possa mai essere negato a nessuna creatura vivente.

Marcantonio Bragadin attraversò dunque tutte le fasi dell’abiezione previste da quella carenza. Dapprima mugolò quietamente il suo dispetto, articolò con la lingua impastata l’obbligo dei carcerieri di preservare la sua dignità, implorò l’eccezione alla durezza della pena, farfugliò le stanche parole della pietà, esplose nei brevi e devastanti lampi dell’ira, s’accasciò nella costernazione e nello stupore. Poi, sopraffatto da quell’avversario invisibile, lacerato fin nel profondo da un’arma d’offesa che non si mostrava, cominciò a vaneggiare in preda alla furia, a lacrimare come un bambino abbandonato, a piegarsi completamente prostrato al volere dei suoi nemici che desideravano che, da uomo che era, si trasformasse in semplice cosa, in pietra riarsa, in un bruto senza più sentimento, così da trarre maggior godimento dalla sua definitiva disgregazione. Acqua…Acqua….

Destato dal colpo di lancia, il veneziano domandò subito il conforto che gli era negato da giorni. E in quel momento, incredibilmente per il suo sguardo annebbiato dalla prolungata tortura, vide che gli si avvicinava un altro soldato, che sosteneva tra le braccia un grande cratere di bronzo, dal quale, ad ogni passo, schizzavano gocce proprio di quel prezioso liquido tanto agognato. Non gli fu però dato da bere, nonostante la sua bocca colante bava vischiosa e le sue labbra ferite lo desiderassero più di ogni altra cosa. n militare infatti giunse a tiro del prigioniero e, con una rotazione dell’avambraccio robusto, rovesciò il contenuto del bacile direttamente sul corpo racchiuso nella gabbia rovente. Le vesti lacere e strappate in più punti perciò se ne impregnarono subito, e quasi immediatamente evaporarono. La pelle riarsa, ferita, ulcerata, scaglio sa, prese invece a fumare lente volute, che però in pochi istanti si dispersero nell’aria infuocata. Era il 17 agosto 1571, un venerdì. Il giorno di festa nel quale Mustafà Lala Pascià aveva deciso che Marcantonio Bragadin dovesse morire. Ed era appunto per questa ragione che, all’inizio della lunghissima cerimonia di terrore e crudeltà che il turco aveva immaginato dovesse essere riservata al veneziano, la vittima sacrificale era stata sottoposta al simbolico lavacro dalle impurità, come le !antiche regole avevano dettato fin dal principio dei tempi.

Fuori!.

Il comando giunse all’improvviso, sonoro e imperioso, scuotendo il cervello quasi atrofizzato nel cranio surriscaldato del prigioniero, e sferzando la tranquillità dell’intero campo ottomano che, da oasi di pace che pian piano risorgeva dall’oscurità della notte, si trasformò immediatamente in un intrecciarsi caotico di movimenti, in un rilanciarsi da un capo all’altro di voci, in risate convulse e un po’ isteriche, in un ululare di gioia, in uno scorrere più veloce del sangue nelle vene di chi avvertiva già prepotente l’eccitazione del prossimo schizzare giocoso di altro sangue straniero. In corpo martoriato, l’ammasso di carne sfibrata e bollita, l’uomo prosciugato e quasi scarnificato dalla calura, venne allora brutalmente sospinto all’esterno dalla gabbia arroventata, fin nella polvere bianca dello spiazzo antistante la tenda del pascià. E là, non appena gli arti cominciarono a distendersi dopo quell’interminabile costrizione, rimase per un po’ a dolorare intensamente, trafitto dalle mille vibrazioni dei nervi che, da ogni punto delle sue membra, gli si scaricavano furiosamente dentro la testa, esplodendo in boati di sofferenza tanto violenti da confondergli le residue facoltà di pensiero. A Marcantonio Bragadin non fu però neppure consentito il minimo vantaggio di poter godere di un attimo di ristoro, al termine dell’assestamento del corpo che prima o poi avrebbe dovuto avvenire, perché un aguzzino lo costrinse subito a mettersi in ginocchio, dalla posizione rannicchiata nella quale si trovava. E fu a quel punto, quando la vittima tentava disperatamente di mantenersi in equilibrio sugli stinchi ridotti ormai a carne viva, che apparve il pascià in tutta la sua inaccessibile magnificenza, e con uno sguardo immobile e sereno da filosofo antico.

Omaggio al glorioso esercito… allora mormorò quietamente il turco, abbigliato con i propri abiti migliori e carico dei gioielli più preziosi che possedeva.

Al tono soave dell’uomo, seguirono dunque i latrati degli ufficiali che indicavano alla truppa i propri compiti. Due energumeni massicci si precipitarono perciò a raccattare da terra quella carcassa vacillante e, a spinte o trafiggendogli la schiena cosparsa di bolle con la punta delle picche, lo gettarono violentemente in avanti, costringendolo poi ad inanellare passo dopo passo i percorsi tortuosi tra tenda e tenda, attorno alle macchine da guerra, a lato degli harem mobili dai quali occhieggiavano i volti sorridenti delle bellissime donne, di fianco ad ogni installazione, magazzino, carriaggio, alloggiamento dei manipoli o recinto di animali che formava la sterminata distesa dell’accampamento nemico.

Le stazioni di quel calvario sembrava non dovessero concludersi mai. Ad ogni spiazzo, a tutte le svolte attorno alle fortificazioni provvisorie, di fronte ad ognuna delle casematte, nei pressi di qualsiasi alloggio di ufficiale, il pellegrino dello strazio venne fatto sostare e, grondante di umori maligni e di sudore salmastro e fetido, fu costretto a prostrarsi per baciare la terra più volte, per !leccarla dimostrando trasporto, per rendere umilmente il doveroso omaggio del vinto al sacro suolo riconquistato dall’invincibilità della Sublime Porta di Costantinopoli imperante in eterno.

E intanto, mentre quel simulacro di sangue e sporcizia procedeva vacillando, da ogni dove veniva bersagliato da sputi catarro si e da scarti di cibo marcito, percosso da colpi di piatto di spada, sollecitato con la punta dei bastoni, rintronato da urla di giubilo e da insulti, che non riusciva a comprendere ma che gli rintronavano nella mente come un’inappellabile sentenza di morte. Finché, stravolto dalla fatica, abbrutito dalle percosse, sconcertato quasi al limite della possibilità di comprensione, stillante putridume mefitico da ogni poro della pelle, venne riportato all’augusta e serena presenza di Mustafà, e là di nuovo obbligato ad immergere la bocca nella polvere, fino a ritirarla quasi soffocato dal terriccio che gli aveva intasato le connessioni tra i denti penetrandogli poi fin giù nella gola riarsa.

Ora è scoccata l’ora del sacro battesimo d’acqua, come usate voi cristiani… a quel punto il pascià si degnò benignamente di filosofeggiare, lasciando scivolare il suo sguardo tranquillo sopra quell’immonda poltiglia umana, sulle membra seminude, frustate ed offese di chi aveva osato contrastarlo in battaglia.

Quindi egli stesso si mosse, levandosi agilmente dal trono dorato che i servitori gli avevano approntato, nell’attesa che il torturato compisse il periplo del campo. Con la ieraticità di un profeta, con movenze sinuose ed eleganti, con l’alterigia dell’uomo superiore che da sempre lo distingueva, Mustafà Lala Pascià si avviò dunque lungo la discesa che conduceva al mare, seguito da presso dalle schiere di soldati in assetto perfetto che circondavano il prigioniero, e da una turba urlante di domestici, cuochi, stallieri, donne, e altra materia vile cui, in quell’occasione, la sua solare benevolenza concedeva per una volta di godere della sensazione di sentirsi finalmente superiori a qualcuno.

La spiaggia venne raggiunta in pochissimo tempo. E a quel punto una decina di trombettieri imbracciarono i loro corni ricurvi e diedero fiato e sonorità ad un lamento luttuoso che, dalla riva ciottolo sa e sabbiosa battuta dai venti incostanti, scivolò e s’ingigantì lungo i flutti e nell’aria torrida, fino al cielo bianco di sole, per giungere poi alle orecchie attente dei comandanti di nave che, al brulicare inconsueto di gente sulla costa, avevano già puntato lo sguardo curioso in quella direzione.

Venne allora il tempo della danza delle vele. La selva delle imbarcazioni che avevano formato il blocco di fronte alla piazzaforte imprendibile di Famagosta, al segnale preciso che proveniva da terra, levò l’ancora, alzò tra il sartiame e gli alberi l’impavesata dei verdi stendardi di guerra, e pose la tela in favore di vento, per radunarsi tutt’attorno all’ammiraglia alla fonda. Si avvertì quindi il cupo rullare dei tamburi sulle tolde, che ritmava la straziante fatica dei rematori nudi ammassati come bestiame nelle stive soffocanti, e i colpi di fischietto dei nostromi e dei capobarca, che sottolineavano l’allegria della festa di morte che l’annuncio dalla terraferma aveva promesso. Quindi, nel frastuono caotico delle voci dissonanti dei marinai che urlavano a perdifiato, la flottiglia man mano architettò ed elaborò manovre complesse lungo direttrici curve e armoniose, che la portarono infine attorno al naviglio principale, con il compito di fare da cassa di risonanza agli eccezionali avvenimenti che si prospettavano, e da palco d’onore allo spettacolo della sofferenza di un proprio simile, che è quanto di più agognato ed eccitante ci sia per gli esseri umani.

Mustafà Lala Pascià seguì attentamente ma con sguardo di pietra l’evolversi dell’immane gioco d’acqua, compiacendosi in sé stesso, ma senza lasciarlo trasparire, per la grazia sublime dei movimenti marini, e per l’insita potenza che significava per la propria persona il poter disporre ad un solo cenno di tante esistenze ai suoi ordini.

Quindi, sempre tranquillamente come chi abbia costantemente presente quale sia il proprio dovere agli occhi del mondo, da una scialuppa che l’aveva trasportato fin là, s’imbarcò sull’ammiraglia attraverso un’ oscillante scaletta di corda e prese posto al centro del ponte, rimanendo poi in attesa a gambe divaricate e con l’espressione impenetrabile di un feticcio.

Lo seguirono soltanto i carnefici che dovevano operare, e la carne ignobile di veneziano che doveva piegarsi a subire le conseguenze della loro raffinatezza. Quando il pascià mormorò tra i denti poche parole per esprimere la propria volontà, i torturatori agguantarono quindi Bragadin per le spalle e sotto le ascelle, e lo fissarono poi con rapidi tratti di gomena all’antenna della galea eretta in verticale per l’occasione. Là poi, dopo averlo scudisciato a lungo e con metodo, e avergli aperto solchi profondi in ogni punto del corpo arrossato, gli strapparono furiosamente tutte le vesti di dosso, lasciandolo spenzolare nudo e martoriato, mentre il sangue sgocciolava copioso sulle assi e le travature della nave.

Guarda, cane infedele, se riesci a vedere la tua armata?! presero allora a dileggiarlo crudelmente dalle battagliole delle navi all’intorno.

Guarda il gran Cristo, se viene in soccorso di Famagosta…! poi lo insultarono nelle sue più profonde credenze. Alle urla, agli strepiti, ai suoni di bocca volgari che s’infrangevano contro le membra sfibrate e disseccate dell’uomo, contro la sua nudità offesa, contro il suo sesso vergognosamente oscillante ,alla vista bramosa di tutti, seguì poi un silenzio improvviso e innaturale, quando, con un gesto !brusco e imperioso, Mustafà Lala Pascià impose di forza che la canea si acquietasse, che la bestia sbavante ritraesse i suoi denti dalla preda sanguinolenta. Fu allora, nel momento in cui quell’enorme assemblea umana lasciò che il solo suono ancora udibile tornasse ad essere quello del respiro del mare e dell’universo naturale circostante, che il signore delle genti e della riconquistata terra cipriota si avvicinò a passo lieve al putrido involucro d’ossa e di brandelli di carne appeso come un animale squartato, e gli fece signorilmente cenno di volergli parlare da solo a solo, senza che nessun’altro lo udisse.

Marcantonio Bragadin fissò a lungo quell’ombra vaga che gli si approssimava, finché riuscì a riconoscerlo dopo un sovrumano sforzo di concentrazione. Non produceva più saliva per sputargli addosso. Non conservava quasi più dignità, né voce per insultarlo. Non era più nient’altro che un recipiente svuotato, e disponibile supinamente ad accogliere le parole dell’altro. Era un fantoccio disarticolato e tragicamente ridicolo, con le orecchie tagliate per udire meglio, e con il naso mozzato colante sgorghi di pus biancastro, per fiutare con maggiore sensibilità il lezzo acre della crudeltà del proprio trionfante dominatore.

Come si può brillare agli occhi del popolo? – il turco iniziò dunque a soffiargli delicatamente in uno dei buchi slabbrati e già erosi dalla cancrena, che egli stesso gli aveva provocato con il coltello ai lati della testa – Come è possibile che un semplice uomo, una fragile canna che può essere piegata da qualsiasi tempesta, riesca ad emergere glorioso dal fango, nel quale invece insiste a sguazzare per tutta la vita la gran parte dell’umanità?.

Il veneziano era confuso. Non riusciva ad intendere se non molto parzialmente quanto l’altro gli stava dicendo. Eppure, si disse sperando contro ogni speranza, quelle parole espresse con la tradizionale obliquità orientale potevano forse celare un’estrema possibilità di salvezza. L’uomo appeso si morse dunque l’interno delle guance per ritrovare una minima presenza a sé stesso, un breve lampo di lucidità, e si impose poi, con la caparbietà del condottiero, di tentare comunque di comprendere, di assimilare, di aggrapparsi a quell’ultimo appiglio come un naufrago alla piccola tavola scheggiata che galleggia sulla cresta spumo sa dei cavalloni infuriati. Io ti conosco, Marcantonio Bragadin quindi riprese Mustafà – Tu non puoi essere poi tanto diverso dagli altri figli dell’Occidente…Voi siete gente che crede che la superficie delle cose debba essere sempre lucida e netta. Anche se poi, sotto quella patina, si può anche agitare un verminaio repellente… . Anche lui quindi inspirò a lungo, perché le vesti sontuose lo torturavano, sotto quel sole a picco. Amate l’apparenza almeno quanto anche noi l’apprezziamo, voi europei, perché dopotutto siete uomini di carne come tutti gli altri. Per questo dico che la tua anima non nasconde nessun mistero per me…Ciò che ho fatto, quello che ancora ti sto facendo, giurerei che magari hai pensato potesse anche avvenire. E sono altrettanto sicuro però che, nello stesso tempo, ne hai voluto scacciare l’idea dalla mente con un certo fastidio. Un po’ perché non ti si presentavano altre alternative, veneziano. Ma anche perché non potevi immaginare che qualcuno alla fine trovasse davvero il coraggio di compiere un’azione tanto feroce e meschina da fargli rischiare che il proprio nome potesse essere cancellato per sempre dalla Storia e dal ricordo dei propri simili…. L’uomo torturato a quel punto chinò leggermente il mento sul petto, a conferma che quel pensiero l’aveva proprio sfiorato. Il tradimento… quindi riuscì a mugolare un suono debolissimo dalla gola riarsa.

Mustafà Lala Pascià assentì comprensivo e, con un gesto che non era di pietà ma soltanto di morbosa curiosità, sfiorò con le dita ingioiellate alcune delle ferite in suppurazione sul torace irto di pelame biondastro del prigioniero.

Lo vedi? – poi disse, provandone un intimo strazio – lo e te sappiamo tutto l’uno dell’altro. Io e te abitiamo case che si fronteggiano da lati opposti di una medesima strada, e non c’è nulla che ci possa reciprocamente sfuggire. Siamo simili, troppo simili. Siamo umani, troppo umani. E il nostro destino è quello di combatterci sempre fino alla morte, perché al mondo rimanga soltanto uno di noi ad attestare la propria originalità….

Il turco ansimò ancora. Poi accettò quasi con dispetto una coppa d’acqua che un servitore teneva a disposizione, pronto a porgergliela ad una semplice occhiata.

Ti ho tradito, dunque… – quindi la sua voce si fece ancora più fonda e gorgogliante – Oppure, se vuoi intenderla in questo modo, ho semplicemente compiuto un altro atto dell’interminabile guerra che si combatte tra le nostre genti…Tu, dimmi, al mio posto non avresti fatto altrettanto?.

Negli occhi iniettati di sangue di Marcantonio Bragadin trascorse allora un lampo di puro odio. Poi luccicò brevemente una lacrima di frustrazione.

Non devi mentire a quel punto il pascià immerse deliberatamente il dito nel profondo di una ferita, strappandogli un prolungato lamento – Voi, bianchi e cristiani…Voi, popoli che vi credete più civilizzati degli altri, voi infallibili, voi Dei senza rimorso, quante volte avete pugnalato alle spalle chi si era fidato della vostra parola? In quante occasioni avete sputato sui patti, stracciato sprezzantemente gli accordi, dimenticato volutamente gli impegni più sacri, mancato ai giuramenti solenni, perché ritenevate che tutto potesse esservi lecito, in nome dell’eccellenza della vostra civiltà, della ricchezza che vantate, della presunzione che la verità vi appartenga, e che il Dio unico in cui credete vi dovesse sempre e comunque proteggere…? Non essere falso con me, Marcantonio Bragadin di Venezia – quindi accentuò la sua ira, tenendola a freno a stento – Non cercare di ingannarmi, perché io ho comandato eserciti come te, sono stato ferito come te, e al pari di te ho percorso le vie tortuose, strette, disagevoli e imbrattate di sterco della potenza umana…Ti ho tradito, è vero. Non lo nego, e anzi ne sono fiero. E forse non potevo fare niente di diverso, come probabilmente sarebbe capitato anche a te stesso, se ti fossi trovato nella mia situazione…-. Mustafà non badò affatto alla protesta del veneziano, che si sforzava di esprimersi con un rantolare sommesso e con qualche tentativo frustrato di sciogliersi dai lacci.

Noi siamo accomunati da un medesimo tragico destino… – quindi il turco continuò – Che è esattamente quello che poi ci ha spinto a capo di una tribù, di una consorteria, di un esercito, addirittura di un regno o di un’intera parte di mondo… E siamo oltretutto avvinti alla sorte che tutto :questo sia poi inserito, incastrato, connaturato, legato indissolubilmente, ad una concezione precisa e rigida dell’esistenza, ad una civiltà particolare dalla quale non potremo mai evadere, neppure ,volendolo… Ed ecco allora, non appena ci si è allargata la mente alla ragione, che ci si è posto subito il dilemma tra il dover essere per tutta la vita uomini oscuri, gente che nasce e che muore nell’indifferenza di tutti, o individui razionali e consapevoli, che non possono fare altro che tenere fede ai principi che hanno assorbito fin dalla nascita, decidendo nel medesimo tempo di uscire da quel fango della mediocrità del quale ti parlavo, e quindi di brillare di luce propria, fungendo da faro anche per il proprio popolo… Ci siamo dunque trovati ad essere prigionieri di questa visione dell’esistenza, veneziano. Di un modo di pensare che ci impone di credere di essere sempre nel vero, e che perciò ci sospinge inesorabilmente ad agire perché questa nostra innegabile illuminazione sia accettata alla fine anche da chi è completamente diverso da noi. E lo dobbiamo fare a tutti i costi, Marcantonio Bragadin. Con ogni violenza possibile. Invadendo, uccidendo, stuprando, stravolgendo l’identità di popoli interi. Perché alla fine l’ambito premio anche delle vittime che verranno ferite e umiliate, spogliate e torturate, e rese folli dalla paura, sarà l’immensa, incommensurabile gioia di ricevere nel proprio cuore quella tale parola di verità abbacinante che noi incrollabilmente crediamo incontestabile ed eterna, e quindi appagante perfino per coloro che nel frattempo abbiamo provveduto a schiacciare… In questo, non trovi che siamo perfettamente uguali, comandante? La mia parte ad oriente, la tua parte di mondo ad occidente, non è forse proprio per questo motivo che si scontra e si uccide da secoli? Non è perché è tanto sicura di avere ragione da considerare l’omicidio di massa addirittura come un dovere o come un merito incontestabile?.

Il pascià si deterse il sudore, mentre la sua gente all’intorno fremeva, in attesa che quel colloquio si concludesse e che si potesse quindi riprendere la festa di sangue.

Nell’anno 1501 della vostra era, noi turchi vi abbiamo battuto a Pianosa – Mustafà si permise poi di sorridere debolmente – Nel 1516, per poco non catturavamo la bella preda del vostro papa Leone Decimo. Nel mezzo secolo che ne è seguito, siamo sbarcati in forze in Calabria; a Messina, nel golfo di Napoli, sulla costa pugliese. Perfino lassù al nord, sulle spiagge della Liguria, che vi illudevate fossero al sicuro. Per un soffio non afferravamo e mettevamo in schiavitù il duca di Savoia, e comunque l’abbiamo fatto per gli abitanti di Sorrento e di Massa… Come vedi, una battaglia che tra noi non si è mai interrotta. Un conflitto di generazioni, di concezioni, di sensibilità, del quale l’insignificante Famagosta non è che l’ultimo trascurabile episodio… Capisci adesso, veneziano, perché non potevo assolutamente sottrarmi al compito di non rispettare i patti con te? Se l’avessi fatto, di questa roccaforte sperduta sull’isola di Cipro presto non si sarebbe più scordato nessuno. Un’occasione completamente sprecata per imporre il trionfo di quella tale santa verità della quale sono portatore… Colpendoti vilmente alle spalle, ho invece tenuto fede fino in fondo a me stesso, proprio nell’attimo nel quale l’ho tradita con te… Famagosta non sarà dimenticata proprio per questa ragione e non altre. Appunto per il tradimento, capisci? Per la vigliaccheria profonda e sordida che non mi cancellerà affatto dalla Storia, come forse hai supposto, ma che anzi mi farà dedicare un capitolo intero nei suoi annali gloriosi. Gli uomini amano il dolore e la morte, tienilo sempre presente. Gli esseri umani sono lupi, che camminano ritti su due gambe per poter scrutare le vittime ancora più da lontano. E questa mia azione di oggi, proprio perché il sangue versato li ecciterà, farà anche in modo che temano che un giorno possa accadere anche a loro. Uccidine uno in modo spettacolare, e allora vedrai che si piegheranno altri cento, altri mille. La paura della Sublime Porta perciò si allargherà rapidamente e a dismisura, e alla fine ci faciliterà il compito di assoggettare ai nostri principi tutto il mondo conosciuto, le genie intere, i popoli nella loro totalità….

Il dialogo adesso stava per concludersi. Prima però il pascià volle rivelare a quell’uomo, che comunque avrebbe portato presto nella tomba il segreto, ciò che il suo cuore gli dettava veramente. Non c’è verità che valga una sola vita – infatti Mustafà sospirò, accertandosi con un’occhiata di sbieco che nessuno lo udisse – Ma, credimi, nel momento stesso nel quale decidessimo di farlo sapere anche a tutti coloro che ci seguono fiduciosi, immediatamente crollerebbe ogni cosa, il caos travolgerebbe di schianto il nostro sistema di vita, e l’appena acquisita consapevolezza delle masse di avere fino allora creduto invano, di essere state ingannate, farebbe all’improvviso diventare di fiele e di pietra il cuore di ognuno. Finché ogni uomo si scaglierebbe contro l’altro singolo uomo, invece di incanalare proficuamente la naturale e immensa riserva di odio che alberga nella nostra anima verso un nemico comune… Così, per evitare un simile disastro epocale, in Oriente per noi ,come in Occidente per voi, avviene che si continua a ripetere, fingendo di esserne convinti, che la nostra, la vostra verità, in ultimo ci renderà sicuramente liberi. E che in nome di essa è quindi lecito :assassinare fino alla fine dei tempi, renderci prigionieri per sempre di un meccanismo di morte e di distruzione che non si arresterà mai… I popoli, per vivere, hanno proprio bisogno di questo, veneziano. Le genti hanno necessità dei conflitti, e desiderano ardentemente credere alle più bieche menzogne, pur di sentirsi ancora utili e vive….

Marcantonio Bragadin aveva seguito quasi tutte le parole pronunciate dal proprio carnefice. Le ultime energie vitali, ormai dissoltasi la speranza di ritrovare una possibilità di scampo in quel dialogo cinico, le aveva dedicate all’unico scopo di poter comprendere il più possibile, per poter replicare forse soltanto una frase, una singola parola, un suono rauco, che potesse infrangere quel folle sogno di conquista e di dominio del turco.

Ho imparato una cosa, vivendo in quest’isola per tanto tempo – quindi raccolse con strazio un briciolo di forza per poter parlare con sufficiente chiarezza – Che i popoli hanno invece desiderio di casa e di campo, di fuoco e di cibo, e di pace… Non sono quelle che immagini tu, le persone di cui sto parlando, gli uomini e le donne vere….

Tossì, e all’improvviso gli sboccò dalle labbra un fiotto di sangue.

Voi, e anche noi, te lo concedo, forse stiamo sbagliando… Di minime etnie, di piccole comunità, di millenarie tradizioni, di antica saggezza che si applica a semplici cose di tutti i giorni, abbiamo voluto fame invece potenza di spade e cannoni, unione ferrea di sgherri, vasti stati, immensi imperi, pensiero comune… Ci siamo sforzati di amalgamare ciò che è diverso in grandi raggruppamenti, forse perché così ci sentivamo più sicuri dalle minacce esterne. Ma in questo modo non abbiamo fatto altro che cominciare a temere sempre di più l’altrettanto ciclopico, e a desiderare quindi che fosse schiacciato e sconfitto perché non ci potesse far più paura… Ormai adesso non c’è più però modo di uscirne, di tornare sui nostri passi, Mustafà Pascià. Con assoluta certezza, noi o voi moriremo, quando l’uno prevarrà finalmente sull’altro. E allora, chi avrà vinto, rivolgerà i suoi denti contro il proprio corpo, e si divorerà da sé stesso per mancanza di altri avversari… E’ il nostro destino, come dicevi anche tu. Noi siamo le pietre dell’architrave di un portone. Che, cozzando una contro l’altra, riescono a reggere il tutto. Ma quando una di esse spingerà di più, allora sarà l’intera porta a crollare. Noi siamo malati di gigantismo, di titanismo dettato dal terrore dell’altro. Noi siamo gonfi come otri dell’aria mefitica dell’ideologia della conquista. Noi siamo pericolosamente infettati dal morbo mortale della verità universale, perché ci siamo dimenticati delle nostre profonde e umili radici, del campanile della chiesetta, della moschea di paese, della fiamma che arde nella singola casa del piccolo centro. Se, per miracolo o per volontà eroica di qualcuno, tornassimo ancora a quella primitiva condizione, di colpo allora, come d’incanto, i confini si moltiplicherebbero di nuovo all’infinito, e diventerebbero talmente numerosi le intrecciati da non costituire più un pericolo o un’ambita preda per nessuno, ma soltanto un filtro penetrabile per scambiarci pacificamente il meglio del nostro pensiero, del nostro lavoro, delle espressioni più sublimi dell’arte che abbiamo creato…Per questo però dovremmo completamente cambiare pelle…, a quel punto un’espressione di furore, alla quale corrispondeva un preciso proposito nato proprio in quell’istante, stravolse il volto di Mustafà Lala Pascià.

Marcantonio Bragadin non rispose. Come avrebbe potuto spiegare a quel condottiero di pietra, a capo di un esercito che si proponeva di assoggettare il mondo intero, che evadere dalla propria [natura per assumerne una meno aggressiva costava il pesante prezzo della modestia, dell’accettazione incondizionata e sincera del voler tornare uomo qualunque tra gli altri uomini, rinunciando per sempre alla gloria eterna e all’imperituro ricordo dei popoli massacratori e di quelli massacrati? Era difficile che una persona del genere lo potesse fare. Era quasi impossibile, anzi, perché la strada della ricerca e dell’accettazione di sé stessi e delle proprie specifiche origini non possedeva il medesimo fascino, non si ammantava della stessa cappa di fulgore di una parola, di un’idea, di un pensiero, che aveva la pretesa di imporsi come valido per ogni uomo sulla faccia del mondo, appagando nel medesimo tempo i peggiori istinti della bestia umana, la bramosia di conquista, di rapina, di sangue, di sterminio e di dominio sugli altri.

Non potrei mai fado – infatti il turco scosse melanconicamente la testa – lo ho bisogno di essere fedele ai principi, di essere ricordato, di essere temuto da chi mi odia e amato dai miei. Se fossi soltanto un uomo, al posto di un esempio vivente, cesserei immediatamente di esistere per davvero. E così è per molta dell’umanità. Forse la strada che tu indichi, quella del ritorno alla primitiva linfa vitale, fra centinaia d’anni, dopo infinite lotte, potrà anche essere vincente, ma l’uomo per ora non può ancora comprenderlo. Noi tutti siamo tuttora troppo primitivi per cessare di credere di essere tanto civilizzati da dover per forza imporre con la violenza la nostra cultura agli altri. Per questo adesso, in questi nostri tempi crudeli, dobbiamo ancora insistere su questa via. Tradendo, per non essere dimenticati. Straziando in modo orripilante un povero Marcantonio Bragadin che apprezzava la vita semplice dei contadini di Cipro, perché il modo terribile della sua morte non faccia cadere nell’oblio il volto di chi l’ha ucciso. C’è ancora bisogno di insegnamenti, mio signore. Le masse sentono ancora urgere dentro di sé la voglia di orrore, per essere rassicurate sulla propria ragione di esistere all’interno dei grandi regni, delle immense adunate di umanità che seguono ciecamente una bandiera… Mutare la pelle, comunque dicevi… – poi aggiunse tetro, prima di voltare le spalle alla carcassa insanguinata – Se è proprio questo il tuo ultimo desiderio, veneziano, allora sarai accontentato….

Si rivolse poi ad un famiglio, ordinandogli di condurre immediatamente un cavallo veloce sulla riva, perché intendeva raggiungere presto la città per mostrare, anche a quei popolani greci che il nemico aveva dichiarato di rispettare, il dispiegarsi feroce della propria potenza.

Quindi assentì in direzione di un gruppo di armati un po’ più distante. E allora il colonnello Martinengo, colui che era venuto in soccorso di Famagosta il 24 gennaio 1571, venne fatto risalire dalla stiva nella quale era rinchiuso, e impiccato una, due, tre volte per sfregio ad un albero della nave.

Intanto Marcantonio Bragadin veniva staccato e calato sul ponte della nave ammiraglia, e da lì trasportato di peso, e gettato senza nessuna delicatezza sul ruvido pianale di un carro.

Quel tragitto che pochi giorni prima, mentre si recava al convegno notturno con il pascià, gli aveva colmato il cuore di presentimenti e apprensioni, ora, ripercorrendolo a ritroso in quelle orribili condizioni di nudità e di schiavitù, gli servì da occasione, nei rari momenti di lucidità, per prepararsi al proprio destino di morte, e per implorare dall’Onnipotente la grazia di scombinare i progetti del turco, non permettendo che il male del proprio martirio potesse essere causa di un male ancora più grande, di terrore per il proprio popolo e di fanatismo di altre genti accecate.

L’uomo dovrebbe forse percorrere volontariamente le strade della debolezza gli capitò anche di riflettere, mentre gli scossoni della carretta gli provocavano lancinanti dolori fin nella più riposta fibra del corpo Finché infatti avrà tra le mani una forza infinita, sarà inevitabile che prima o poi la debba usare per precipitare l’intera razza umana in un baratro senza fondo….

Allora sarebbe stato forse necessario, si disse, che le singole parti, le diverse etnie che componevano gli imperi, che fornivano consistenza alle dilaganti armate, ritrovassero finalmente l’antica e sopita coscienza di sé, e cominciassero quindi ad erodere dall’interno ciò che esse stesse, nel tempo, avevano costruito con tanta pena. Ovvero quei grandi aggregati umani e politici, la cui sorte sarebbe inevitabilmente stata quella di scontrarsi e tentare di maciullarsi a vicenda, per creare comunità sempre più immense, arroganti, e inesorabilmente prive di quei freni inibitori ai quali gli uomini, fin da quando correvano nudi per la savana, non potevano sfuggire perché rimanevano indissolubilmente legati alle tradizioni, al bene della propria terra natia, in un certo modo all’aria stessa che respiravano fin dal primo vagito.

Sarebbe così giunta l’epoca felice nella quale i Mustafà Lala Pascià non avrebbero più procurato danno e distruzione, perché chi fosse stato loro vicino non avrebbe permesso che si inebriassero del veleno dell’ideologia, di quel senso perverso della verità e dell’aspirazione ad una particolare visione del bene che obbligatoriamente transitava per la conversione degli altri attraverso il sistematico esercizio del male.

Le mura delle fortificazioni titaniche di Famagosta adesso erano immerse in un crogiolo di luce, mentre il ferro incandescente del mezzogiorno scavava le carni degli abitanti. Sugli spalti di pietra gialla ed erosa dal tempo e dalla salsedine trasportata dai venti marini, sventolavano gagliardi i .vessilli trionfanti della Sublime Porta. Gli armati ricoperti dalla lunghe e vaporose tuniche ,ottomane e col capo adorno della bombatura dei turbanti sfarzosi, lambivano con lo sguardo soddisfatto la loro recente conquista, l’intrecciarsi dei destini della popolazione che aveva gioito che la guerra si fosse finalmente conclusa senza apparenti vendette.

Cinquantaduemila uomini perduti in quattro assalti… calcolò furente Mustafà, smontando da cavallo. Era un conteggio di morte che avrebbe dovuto far dimenticare molto presto al sultano, offrendogli in grazioso omaggio la vita miserabile dell’infedele Bragadin, e opprimendo senza nessuna pietà quella città che ancora si illudeva di non dover pagare il prezzo della propria offensiva resistenza.

Il veneziano intanto era stato gettato a spintoni giù dal carro. Ora, secondo le intenzioni del suo tormentatore, si sarebbe dovuta svolgere l’ultima parte del rito, l’estrema cerimonia del dolore che avrebbe sanzionato una cesura storica, e insieme simbolica, tra il dominio della Serenissima e quello dei nuovi padroni.

Obbedienti alle indicazioni del loro signore, un paio di robusti carnefici afferrarono quindi di nuovo l’uomo nudo, e lo caricarono sulle spalle ferite di un grande cesto di vimini, colmo di terriccio e di pietrame pesante. Cammina!, quindi gli ordinarono, mentre lo pungolavano con le lance nella schiena e nei glutei, indifferenti se le lame penetrassero a fondo nella carne slabbrata.

Cominciò allora a snodarsi la strada dell’abiezione. Un uomo esposto senza vestiti al ludibrio di tutti, perde con gli abiti anche gran parte delle proprie difese mentali, ed è quindi costretto, proprio come hanno desiderato i suoi oppressori, a ridursi ad essere ancora di più una cosa senz’anima, quasi per potersi nascondere e sottrarsi così ai colpi più duri. Un uomo è dunque nudo molto più a fondo della superficie della propria pelle, molto oltre l’esposizione umiliante degli organi che il pudore gli fa tenere celati. Se poi questo stesso essere umano è affaticato da un peso gravoso e intollerabile, è come se la sua stessa umanità venisse completamente negata, rappresentandolo agli occhi dei propri simili come una volgare bestia da soma facilmente sacrificabile. Ed è appunto allora che, privata del tutto la vittima della propria residua dignità, della propria qualità superiore di creatura dotata di anima, sarà molto più facile per un aguzzino sopprimerla senza rimorso e senza biasimo, come si fa con un insetto repellente, cancellato dal mondo con una manata e un sospiro di piena soddisfazione.

Al disgraziato non fu dunque risparmiata nessuna fatica. Sollecitato dalle urla e dalle spinte dei suoi guardiani, sfiatò tutta l’aria dai polmoni su per le ripide scalinate che conducevano ai camminamenti in cima alle mura arroventate. E là, incrociando la soldataglia feroce, quei non rari esemplari di umanità caina che gode nell’assistere allo spettacolo eccitante della sofferenza brutale degli altri uomini, non mancò chi cosparse il percorso di cocci di vetro perché si infiggessero nelle piante dei piedi del veneziano, o chi gli gettò bastoni tra le gambe tremanti, con l’intento di farlo ruzzolare rovinosamente sulla pietra scabra, e costringerlo poi a ricaricarsi della cesta pesante con uno sforzo inumano.

Poi, inoltratosi in città, mentre un codazzo di mocciosi, proprio di quelli che s’inchinavano invece al suo passaggio quando comandava la piazzaforte, lo seguivano urlanti, tempestandolo di pietre e di sputi, felici di poter impunemente dominare sopra un adulto, anche le donne, attirate dal volgare schiamazzo, uscirono con titubanza dal fondo soffocante delle case, spuntarono dai vicoli bui, e si riempirono subito le pupille di quel corpo nudo di maschio indifeso e disponibile alla ferocia.

Ci fu allora, tra loro, chi ebbe la tentazione di asciugargli pietosamente il sudore, e però subito se ne ritrasse per timore dell’arcigna scorta del prigioniero. Altre invece, e non furono poche, non persero l’unica occasione della loro esistenza di sottoposte di punire in quell’uomo esclusivamente il suo essere uomo. Qualcuna dunque si fece coraggio e, raccolta una pietra da terra, la scagliò dritta al bersaglio. Un’altra, raccattata una mazza, gli percosse la schiena e, con gioia ancora maggiore, le natiche. Molte, rinfrancate da quanto avevano appena visto, colpirono dove più dava loro piacere, di piatto e di punta sui genitali scoperti.

E intanto Marcantonio Bragadin procedeva lungo la via dell’orrore, si inoltrava arrancando in gironi infernali sempre più tetri e abissali. Strascinava i piedi spaccati dal sasso e dal vetro, aspirava a fatica sotto il giogo terribile del carico di pietre, esponeva le spalle alle scudisciate, spurgava liquame dalle orecchie e dal naso segati, si umiliava della sua nudità, subiva le bastonature, sudava sotto la sferza inclemente del sole, si era ridotto ad uno spettro nella cui figura dolente spiccava il rosso delle ferite, il viola dei lividi, e il bianco della polvere che gli ricopriva la pelle, si incrostava alle suppurazioni, penetrava negli orifizi, gli accecava gli occhi e gli impediva il respiro.

In questo modo continuò perciò a camminare, visitando ogni quartiere, ogni strada, passando davanti alle botteghe aperte, alle case dei maggiorenti della città, negli androni ombreggiati nei quali si radunavano i mendicanti cencio si, al mercato trionfante di colori e di merci dopo la felice conclusione del lunghissimo assedio. Tutti dovevano vedere, aveva decretato tranquillo Mustafà Lala Pascià. Tutti dovevano imparare in cosa si trasforma la vita quando si è perdenti. Tutti erano costretti ad ammirare da vicino come si andava sfilacciando l’orgoglio del veneziano, il simbolo dell’arroganza della Repubblica del Leone, il rappresentante della superba e decadente civiltà occidentale.

Vaso vuoto che risuona perché privato dell’anima… lo giudicò allora il turco, quando lo vide sopraggiungere nella piazza principale, nella quale era già stato apparecchiato il lussuoso apparato per l’atto finale Vescica gonfiata che vibrerà a lungo e lontano, recando ovunque la notizia della mia gloria e del mio trionfo….

Nel grande spiazzo al centro di Famagosta, mentre già si radunava la folla attirata dal rullio dei tamburi e dal soffiare profondo dei corni ricurvi, erano stati disposti tutto attorno ricchi sedili ricoperti di seta cangiante, sui quali già si erano accomodati gli ufficiali dell’armata straniera. Servitori seminudi alleviavano il fastidio della calura, agitando flabelli sopra le teste inturbantate dei militari, intanto che giovanissimi e graziosi servitorelli correvano dall’una all’altra delle personalità, per rinfrancarle con bibite o con piccoli dolci esageratamente zuccherosi di antica tradizione turca.

Fino a quel momento, gli occhi di ognuno dei presenti erano stati attirati dalla colonna di marmo collocata a mezzo della spianata, e dallo sfarzoso baldacchino di seta sotto il quale era seduto il pascià, immobile e indifferente come una statua di sale. Ma, quando il rottame umano, sospinto dalla deriva delle torture e degli schiamazzi, spuntò barcollando da una confluenza, le pupille attente degli spettatori gli si appuntarono contro, e se ci fu chi ne provò un po’ di pietà, gli altri valutarono con giudizio da intenditori quanto quel corpo ormai allo stremo di cane cristiano potesse ancora resistere al definitivo tormento che lo attendeva. Si intrecciarono allora commenti pessimistici, che lo davano già per morente, ed opinioni più speranzose, che ritenevano invece che per fortuna sarebbe vissuto ancora abbastanza per sperimentare fino all’ultima goccia di strazio il trattamento crudele che gli sarebbe stato riservato.

Quindi le voci si tacquero, perché almeno la morte richiede un po’ d’attenzione. E parlò soltanto uno dei molti, ovvero il più grande, colui che era padrone del destino e della vita dei suoi nemici. Marcantonio Bragadin, se fosse vero il tuo Cristo, io adesso avrei tra le mani il potere di fare di te un santo… – lo irrise il pascià, pur mantenendo un tono di voce severo e misurato – Invece a te resterà soltanto il privilegio di morire per mio volere, perché ora io intendo mantenere la promessa che ti ho fatto là sulla nave….

Mosse quindi appena appena le dita, e allora apparve un uomo gigantesco e dal volto di rame, che reggeva tra le mani una lama affilatissima ed altri luccicanti strumenti. Intanto il prigioniero era stato incatenato alla colonna, pronto a non deludere l’attesa fin troppo paziente del pubblico.

Il carnefice gli si avvicinò. Poi, con gesti tranquilli, calmo come lo specchio d’acqua di uno stagno, incise la fronte con un taglio preciso poco sotto l’attaccatura dei capelli rossastri del disgraziato. Quindi, flettendo il gonfiore dei suoi potenti bicipiti, afferrò con le dita il lembo superiore della ferita e, con uno strappo netto e improvviso, scuoiò rapidamente la vittima, strappando con perizia fin sopra la nuca la pelle del cranio e il suo fulvo pelame. I raggi del sole perciò bersagliarono senza clemenza la carne viva, rossa, pulsante, percorsa dal viola delle vene e dal grigio con sfumature biancastre delle attaccature dei muscoli. E fecero brillare l’osso, che a tratti appariva con bagliore candido nella liquida massa sanguinolenta. L’urlo di infinito dolore del martire aggiunse allora le colonne che sostenevano il cielo e le scosse dalle fondamenta. Il mondo perse un battito del suo cuore, interruppe per un attimo il suo fondo respiro. Non un singulto, non un tremolio, non un fremito, turbarono invece la tranquillità della coscienza dei turchi.

Nemmeno il torturatore diede segno di scomporsi. Era uno dei tanti uomini che sanno compiere il proprio dovere con cuore puro e senza pensiero. Si nettò infatti con un grugnito uno schizzo di sangue che aveva intriso il vello fitto del suo torace, e proseguì poi con abilità e precisione la ‘propria opera, per guadagnarsi onestamente la borsa di monete d’oro e le grazie di una concubina che gli aveva promesso la generosità del pascià.

Venne poi il turno del volto del condannato. Il gigante torse il polso e, dall’alto in basso, infilò la punta della lama nella traccia sgocciolante che aveva precedentemente inciso, scalzando quindi pian piano, con accuratezza, avvalendosi di lamine d’oro che introduceva nei varchi, l’epidermide della fronte e dei resti nerastri del naso tagliato, la fragile copertura delle palpebre, per poi strappare bruscamente le guance fino agli zigomi e lavorare di fino intorno alla bocca. Il collo fu invece più semplice da trattare, perché era sufficiente cercare di non sfiorare la gonfia arteria che lo percorreva, lasciando così sopravvivere fino alla fine l’uomo incatenato e brutalizzato.

Fu in quel frangente che il turco massiccio fu sopraffatto per un istante dal caldo. Il lavoro costa fatica e sudore, ed è questa la cifra con la quale si misura la serietà dell’impegno. Con gesti paciosi, l’uomo si asciugò dunque il volto e le ascelle pelose. Poi, sbuffando come un mantice, studiò per un po’ l’eccellenza della propria impresa e la trovò degna di ammirazione.

La testa di Marcantonio Bragadin era ormai ridotta ad un’enorme spugna intrisa di sangue vivo. Sembrava uno di quei manichini di legno che, nei laboratori degli alchimisti, venivano usati, da quegli uomini assetati di conoscenza, per meditare e sperimentare sull’intima struttura anatomica.

Era dunque un fantoccio intessuto di carne che soffre, qualcosa di quasi non più umano distrutta in quel modo a causa non del sapere ma per il puro piacere. Era un prodotto della sublime inventiva di quegli animali a due gambe che dominano questo sfortunato pianeta.

La vittima però nel frattempo era svenuta, e questo non soddisfaceva chi stava a guardare. La massa di fibra pulsante appena scuoiata cadeva inerte in direzione del petto, e da ogni punto sgocciolava materia sanguigna, umori, liquami mucosi, stille vischiose che trasudavano dall’interno del cranio, dagli strati profondi di guance, di orbite, degli zigomi e del mento. Più sotto, scotennata completamente, saliva su e giù la massa appuntita che adorna la gola dei maschi, e si intravedevano facilmente i grandi cordoni, i tiranti fibrosi dei muscoli che reggono il peso del capo.

Ma il disgraziato era purtroppo incosciente. Era un pezzo di bruta materia che si arrogava il diritto insultante di non partecipare attivamente al trionfo della giustizia, e che perciò privava subdolamente il suo pubblico di parte del legittimo gusto.

Fu dunque fatto rinvenire di colpo quando il carnefice lo trafisse nel costato con un colpo deciso di ama. E allora Mustafà Lala Pascià, con il volto atteggiato a benevolenza e sapienza, lo fissò nei lobi oculari quasi completamente enucleati, che sembravano biglie di marmo appena appena attaccate ad un supporto, e quasi sul punto di rotolare nella polvere candida ed infuocata.

l’oscena creatura scorticata fu dunque costretta con la forza a levare di nuovo quel che restava della propria testa, e a quel punto il pascià gli sorrise amabilmente, come talvolta si fa con un servo obbediente. La pelle, gli ricordò poi a voce alta – Nulla a questo mondo cambierà mai, veneziano. Mai, anche se ci sforziamo di mutare o di uscire dalla nostra pelle….

Disse così, e non l’intese nessuno, nemmeno Bragadin ormai morente. Poi, indifferente alle fasi ulteriori della barbarica punizione, si levò stancamente dal suo trono lussuoso e, a passo lento e solenne, in splendido isolamento, si avviò di nuovo verso le mura, perché avvertiva nostalgia della visione pacificante del mare, della tenerezza di un po’ di poesia, di un attimo intenso di meditazione profonda, dopo aver compiuto fino in fondo il proprio dovere di conquistatore. La morale ipocrita degli infedeli… a quel punto chinò dolorosamente la testa, quasi che fosse offeso da quella miseria di pensiero E’ bastato che facessi credere di desiderare il corpo sottile di quel paggio perché mi dessero modo di trovare un facile pretesto per massacrarli….

I cristiani preferivano sempre la morte alla vita, quindi rammentò. Ne erano ossessionati. Ed era per questo che, forse nel volgere di pochi anni, la loro cultura si sarebbe accartocciata su sé stessa, ;comparendo quindi per sempre.

Memento mori, ricordati che devi morire, erano soliti affermare costoro ad ogni istante, atteggiando il volto ad una maschera d’intenso dolore. Nella macerazione continua di volersi perciò guadagnare benemerenze per il loro falso paradiso, avrebbero alla fine sempre più dischiuso le corte alla comprensione e al soccorso dell’altro, del diverso, di chi soltanto loro ridicolmente reputavano fosse debole e spaurito, maltrattato e sfruttato, infelice e ormai del tutto incapace di reagire e di colpire a fondo e con efficacia.

E allora verrà il momento felice nel quale il loro cuore finalmente si presenterà tenero e nudo, e le pupille degli sciocchi si spalancheranno per lo sbalordimento, quando verrà trafitto senza pietà proprio da coloro per i quali hanno generosamente provato pietà….

Mustafà assentì. La morte e il patimento dei singoli era invece una questione trascurabile quando si intendeva fondare un impero. Lui stesso, durante uno degli assalti alle mura di Famagosta, aveva perduto il figlio primogenito, la luce stessa dei propri occhi. Eppure non si era spezzato, imitando si soltanto ad accentuare lo squisito piacere mentale per lo spasimo angoscioso del Veneziano.

La fine non se l’aspettano, in Occidente. Si credono tanto sicuri di sé da potersi anche concedere il lusso della clemenza e dell’umanità. Sarà appunto per questo che, se oggi non riusciremo a piegarli con la forza, spada contro spada, esercito contro esercito, domani potremo anche far credere loro di esserci arresi, per poi penetrare pacificamente nella rocca nemica come fratelli o come mendicanti n cerca di pane. Basterà allora attendere di essere in numero sufficiente, per cominciare ad erodere dall’interno le fondamenta stesse della fino allora imprendibile fortificazione avversaria….

Dopo l’allontanamento del suo signore, il muscoloso gigante aveva accelerato il proprio lavoro, per poi ritirarsi all’ombra dei portici, e bere acqua fresca da un otre che era stato preparato appositamente per lui. Abbracciò perciò di gran fretta il corpo scorticato a metà e, dal retro, gli segnò con una lunga incisione la pelle lungo la spina dorsale. Quindi, dopo aver immerso nel grasso giallastro strumenti adatti a non farla lacerare, quasi si trattasse di sfilare un camiciotto di tela strappò con le forti mani in direzione opposta, finché i grandi lembi, cui erano rimasti incollati strati di cotenna untuosa e bianchiccia, furono staccati fino all’altezza dei fianchi, a lato lei capezzoli e della cassa toracica del torturato. Marcantonio Bragadin a quel punto svenne di nuovo. E riuscì finalmente a morire nel momento cui, trafitti con un taglio trasversale i muscoli pettorali, l’uomo dal volto di rame mise allo scoperto fin giù all’ombelico il rimanente della carne viva e stillante.

Ma intanto i dignitari, ormai annoiati dallo spettacolo e infastiditi dall’insopportabile calura, stavano sciamando a gruppi, ciarlando già di altre questioni. Finché sulla piazza, fedele al proprio compito, rimase soltanto il carnefice e qualche donna curiosa che occhieggiava da dietro i tendaggi delle finestre Il primo dunque iniziò dai piedi per scuoiare tutte le gambe con perizia da vero maestro. Le seconde si ritirarono invece nelle stanze più interne delle case circostanti, soltanto dopo che ebbero soddisfatto la propria curiosità femminile sul come il coltello ricurvo avrebbe operato per spellare con indubbia abilità i genitali pesanti del comandante cristiano…

Costantinopoli….

Ritto su una delle quattro torri di avvistamento che intervallavano la lunga teoria delle mura di Famagosta, Mustafà Lala Pascià era indifferente alla vampa che lo attanagliava. Il suo cuore sognava. La sua mente costruiva ardite architetture di parole di lode. Le sue mani si chiudevano e si aprivano come se fossero state percorse da un brivido di intenso piacere. Il suo sesso sentiva ancora bisogno di vita e di lancinante appagamento immediato.

Costantinopoli….

Senza neppure chiudere gli occhi, rivedeva adesso il paesaggio sublime della città magica, così come appare allo sguardo incantato di chi provenga dal mare. I pinnacoli che si levavano al cielo, contendendo l’imperio alle nuvole. n tondeggiare dorato delle cupole delle moschee. n brillio sotto a luce diurna dei mosaici dei palazzi. I fuochi delle torce nei giardini incantati sotto la luna.

l’addossarsi una all’altra delle casupole bianche. Il formicolio della gente che vestiva abiti vaporosi e colorati. Le palme maestose che gettavano ombra sulle spiagge infuocate. Il gonfiarsi improvviso delle vele delle navi alla fonda. L’andirivieni delle barche che incrociavano lente e pesanti sulle acque del vasto e profondo canale.

Costantinopoli….

Il pascià si girò di tre quarti e, con un’occhiata breve e malinconica sulla necessaria infelicità umana che si vedeva adesso sfilare per le vie là sotto, seguì la cavalcata del simulacro di Marcantonio Bragadin, di quel piccolo uomo insignificante che era stato un nulla assoluto prima che gli fosse affidato il ruolo glorioso di servire a confermare la grandezza del proprio nemico storico. La sua pelle di maledetto infedele era stata intanto ricucita con somma cura attorno ad un imbottitura di paglia, e il fantoccio ridicolo al quale erano state ridotte le spoglie del condottiero era stato poi rivestito con abiti sontuosi e con un cappello di pelliccia. Quindi, mentre le carni erano state squartate e distribuite a pezzi ai reparti perché fin l’ultima fibra dell’avversario fosse dilaniata e dispersa, la triste figura ancora spurgante sangue era stata portata in trionfo tutto intorno alla città, con un seguito di sbeffeggianti comparse che inalberavano sulle picche le teste mozzate di Astorre Baglioni e degli altri ufficiali veneziani.

Costantinopoli….

Mustafà allora decise che si sarebbe preoccupato di far sfilare quell’oscena rappresentazione anche per le strade della capitale dell’impero ottomano. Perché tutti potessero vedere e capire che mai niente sarebbe cambiato sulla faccia butterata del mondo, e che quindi la potenza avrebbe sempre trionfato su tutto e su tutti, fino all’immancabile vittoria finale. Poi, al termine della festa di giorni e giorni che il sultano avrebbe avuto l’obbligo di celebrare in suo onore, il fantoccio di pelle e di paglia di quell’avversario arrogante sarebbe stato definitivamente abbandonato, come cosa che a quel punto aveva esaurito il suo scopo, nel fondo delle umide prigioni degli schiavi, perché in ultimo servisse da monito anche per loro.

Tutto questo orrore apparirà forse a qualcuno come pura follia poi il turco si compiacque della propria sofferta filosofia E invece è soltanto precisa coscienza della Storia e della natura selvaggia degli uomini. E’ dunque segno di perfetta lucidità….

Sui resti del condannato, strascinati da folle vocianti per le strette stradine, e poi abbandonati in un angolo in mezzo ai rifiuti maleodoranti, stavano adesso calando a becco spalancato gli uccelli famelici, felici per quel pasto insperato di carne fresca.

Costantinopoli… pensò allora per l’ultima volta il comandante, sentendosi invadere l’anima da una molle dolcezza e da un turbamento che non provava da moltissimi anni.

Il mare adesso che era tornato a guardarlo, si era trasformato in una lastra d’argento levigata dalla sapienza della luce solare.

Dalla costa salivano a ondate fin lassù i profumi intensi del timo e della lavanda. Tutto attorno, il mondo respirava felicità. Le terre di conquista cristiana… anche Mustafà Lala Pascià si permise allora di rallegrarsi, puntando lo sguardo acuto verso l’estremo orizzonte, in direzione delle coste d’Italia e di Grecia. Laggiù molto presto avrebbe diretto le navi, sbarcato i cavalli, piazzato le artiglierie, incitato le truppe fedeli alla battaglia definitiva.

Laggiù, sul capo d’Otranto. Laggiù, nell’isola di Trinacria. Laggiù, nella bianca Atene o nel canale frastagliato nel quale si s�ecchiava l’imprendibile roccaforte di Lepanto.

LEPANTO…

A LEPANTO…